Le prime tracce dell’uomo lasciate nella Valle del Fersina
Le prime tracce dell’uomo lasciate nella Valle del Fersina sono riconducibili già all’età del Bronzo, epoca alla quale risalgono diverse attività di fusione del rame. I metallurghi infatti scelsero questo posto nei pressi di una fonte di acqua che scorga vigorosa dalla montagna al Passo del Redebus (1440 m. slm), per estrarre dalla roccia un metallo a quel tempo preziosissimo: il rame. Oggi ad Acqua Fredda si può vedere una delle più importanti fonderie preistoriche dell’intero arco alpino. Si tratta di una delle aree archeologiche divenuta museo più alta d’Europa dove è stata riportata alla luce una batteria di nove forni fusori. In epoche successive, la Valle non sembra aver avuto abitanti stabili, ma veniva sfruttata per i boschi ed i prati.
Le prime tracce dell’uomo lasciate nella Valle del Fersina sono riconducibili già all’età del Bronzo, epoca alla quale risalgono diverse attività di fusione del rame. I metallurghi infatti scelsero questo posto nei pressi di una fonte di acqua che scorga vigorosa dalla montagna al Passo del Redebus (1440 m. slm), per estrarre dalla roccia un metallo a quel tempo preziosissimo: il rame. Oggi ad Acqua Fredda si può vedere una delle più importanti fonderie preistoriche dell’intero arco alpino. Si tratta di una delle aree archeologiche divenuta museo più alta d’Europa dove è stata riportata alla luce una batteria di nove forni fusori. In epoche successive, la Valle non sembra aver avuto abitanti stabili, ma veniva sfruttata per i boschi ed i prati.
Fu nel Medioevo
che si stabilirono in Valle i suoi primi abitanti. Si trattava di coloni di lingua tedesca, che per volere dei Conti del Tirolo giunsero attorno al 1200 nella parte alta della Valle e sull’intera sponda sinistra per ripopolare una zona poco abitata. Ai coloni veniva affidata la gestione di un terreno di circa venti ettari destinato al lavoro agricolo ed all’allevamento su cui veniva costruita anche l’abitazione e la stalla per gli animali con annesso il fienile: siamo agli albori del maso mocheno. Il maso era pressoché autosufficiente: non solo garantiva prodotti agricoli, dell’allevamento e boschivi, bensì riusciva a realizzare anche attrezzi e manufatti di uso quotidiano come potevano essere le dalmedre: le calzature di legno che vennero indossate fino a metà del Novecento. I contatti con l’esterno erano molto ridotti e ciò permise di conservare le abitudini, le proprie tradizioni, e soprattutto la lingua mochena. Per capire profondamente questa realtà si può visitare il Filzerhof, un maso museo che apre le porte ai visitatori e ne racconta dettagliatamente la sua essenza.
Nel corso dei secoli subentrò l’attività mineraria che vide, soprattutto a cavallo del ‘500, l’arrivo di minatori tedeschi, chiamati knoppn. Da non perdere la visita alla miniera “Gruab va Hardimbl” e il museo “S Perkmandlhaus” a Palù del Fersina che tutt’oggi ci proietta in quel tempo di fioritura mineraria per la Valle.
A partire dal 1700,
molti uomini diventarono kromeri, ovvero dei venditori ambulanti conosciuti in tutto l’impero austroungarico. A novembre, finiti i lavori nei campi, partivano con la kraizera sulla schiena alla volta delle cittadine dell’impero asburgico, dove acquistavano merci da rivendere nelle campagne. Non commercializzavano alimenti, ma stampe su vetro, abiti, stoffe… Nei periodi più difficili la pratica dava aiuto a decine di famiglie che potevano così integrare il reddito e acquistare qualche appezzamento di terreno in più. In primavera, quando gli uomini tornavano a casa, in dote portavano anche un contributo alla crescita culturale e linguistica della valle, perché il loro ritorno coincideva con nuovi stili, nuove canzoni e nuovi balli. Anche nelle nostre famiglie si praticava questa attività e conserviamo non soli i racconti dei nostri nonni, ma anche importanti documenti legati ad essa, come le licenze rilasciate dall’impero austroungarico e la kraizera che venne utilizzata negli ultimi periodi.